30 dicembre, 2011

Omaggio a Pete Stevens.

L'ultimo saluto dell'anno va a Pete Stevens, co-fondatore del marchio di bassi Wal e persona onesta, appassionata e gentilissima, morto il 28 dicembre a soli 65 anni. Un liutaio, un artigiano, un artista. Grazie al suo lavoro c'è molta ottima musica in giro e molti straordinari strumenti, anche in mano a gente ignobile come me.

27 dicembre, 2011

De tuailait saga: brechin bols e la maledizione del Completismo

Mesto meriggio, che per un cinema oscuro miglior opere bigio.
Un matrimonio, una collana d'aglio, chili di cerone e un fritto di scalogno, quando il dente aguzzo sporge e il pelo irto cresce, uno sbadiglio scuote un pathos che non cresce.
Telenovela transilvana in salsa americana, con Lupo de Lupis languido con smartphone e bandana.
Dove il cerone incespica su carne color rosa e l'ululare echeggia in CiGiAi schifosa, è bene aver trastulli per evitar la prosa.
Lo feci per amor, per pietas e caritas, 'ché niuno volle offrirsi e a me toccò il tormento.
Se pur si è visto il primo, lo seguito e lo terzo, non lo ordinò lo medico di beccar puro questo!
L'età in soccorso vien per superar perigli, arrotondar li spigoli e porre novi veti.
Il giovane soccombe al sequel e al malloppone, ma quando i calendari si ammucchiano alle spalle, è tempo di discernere ed evitare le palle. Se un libro fa ribrezzo, sia pure a metà via, è il caso di riporlo: amen o così sia. Non v'è motivo alcuno per cui lo film seriale, dovrebbe seguir regola più lasca e liberale. Se fa cagare il primo, al bando scelte pavide, sotterralo ben bene e calaci una lapide.

Questo piccolo sfogo sgangherato è frutto di un'esperienza dolorosa, al limite della sopportabilità umana. Il tormento, aggravato dall'impossibilità del commento libero durante la proiezione, è irrobustito dallo sconcerto per la produzione low-cost di un film a sicuro rendimento. Quest'oscenità, solo nel primo mese (o giù di lì) aveva raggranellato oltre 500 milioni di dollari... Varrà pure un po' di attenzione al trucco e venti euro in più agli effetti speciali?
Bisogna disintossicarsi tutti dal Completismo, questa ossessione di non lasciare le cose a metà.
Liberiamoci da questa catena, se una cosa non ci piace, molliamola (almeno quando parliamo di arte, o supposta tale). Ma chi ce lo fa fare, per esempio, di terminare un libro che non ci piace? Ce ne sono talmente tanti al mondo che non potremo mai leggerli in tutta la nostra vita, nonostante ciò spesso sprechiamo il nostro tempo a finirne di brutti. Rivendichiamo il diritto di interrompere qualsiasi cosa.
È anche una visione più romantica della vita e ci consentirà di dire: "Mah, non so, forse era anche un buon libro. Non posso stroncarlo del tutto, l'ho lasciato a metà, anzi, avevo letto solo le prime tre pagine".
Ci sono mille cose più importanti per cui combattere fino alla fine, ma disperanti saghe di vampiri emo, proprio no.


23 dicembre, 2011

Come vorrei avere, due miliardi al mese...

Sono ormai anni che osservo con attenzione questa scelleratezza, un abominio di cui tutta la classe politica  è responsabile. Solo ora, pochi singoli, timidamente cominciano a sollevare la questione in pubblico.
Chi invece l'ha sempre fatto è Gino Strada.
Quanto mi piacerebbe che il 2012 portasse a questi geni che ci governano il coraggio per tagliare le spese militari. Non c'è molto altro da fare. Non stiamo giocando a Risiko, siamo un paese che ripudierebbe la guerra...

http://www.youtube.com/watch?v=McHNfEZv3yQ


Buone feste.

21 dicembre, 2011

Riflessioni natalizie e lo tsunami alle porte

L'articolo 8 della tanto vituperata Costituzione recita quanto segue:

Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.


Fate attenzione a non cadere nella trappola sottesa dal primo comma: si stabilisce un'eguaglianza riferita alla libertà, non un'eguaglianza assoluta dinanzi alla legge.
Questo cavillo costituzionale ha permesso e permette allo stato di determinare come trattare ciascun culto, in base alla convenienza territoriale, al suo radicamento o a qualsiasi altro criterio che di volta in volta torni utile.
Ma al di là di ogni distinguo, laddove il culto non determini un'offesa al costume, alla morale o implichi una violazione di una legge, il culto è libero.
Risulta piuttosto evidente a tutti che, al di là della fede di appartenenza, in uno stato laico, tali distinzioni non devono esistere. Se il professare una fede è libero, e quindi si rigetta qualsiasi criterio discriminatorio, non può essere lo stato stesso a tracciare confini, agevolare l'uno o l'altro credo secondo convenienza storica o politica. Eppure è così.
E la recente querelle legata ai privilegi della Chiesa Cattolica, per esempio in ambito fiscale, è solo la punta dell'iceberg. Nutro la convinzione che, come per molti altri aspetti discutibili di questa nazione, l'occhio critico e sempre meno tollerante del popolo di Internet (composto in prevalenza dalle nuove generazioni) dilagherà nel volgere di pochissimo tempo. Basta guardarsi indietro di tre o quattro anni per rendersi conto di quanto lo scenario attuale sia andato oltre ogni più ardita previsione. L'influenza che le opinioni coagulate in rete stanno avendo è in ascesa rapidissima. Le cose stanno cambiando in modo fulmineo e le nuove generazioni sono quelle che inevitabilmente invaderanno i posti di comando del futuro. L'elite reazionaria (su qualsiasi piano la si intenda) dovrà arrendersi ai numeri, perché ciò che viene dal basso è come l'acqua: prima o poi una via d'uscita la trova. E come l'acqua, tanto più stretta sarà la fessura attraverso la quale filtrare, tanto più violento sarà il getto e devastante l'inondazione.
Le iniquità e i privilegi resistono quando il benessere è distribuito a sufficienza, quando la pancia è piena e allora si tollera anche qualche differenza di troppo. Oggi la tavola è spoglia, il banchetto ridotto, anche queste festività hanno un gusto dimesso. La fame (o la necessità) aguzzano la vista e l'ingegno, alimentano il rancore e sottolineano i contrasti.

Io, nel mio piccolo, suggerisco una piccola modifica costituzionale. Il primo comma dell'articolo 8 dovrebbe diventare:
Tutte le confessioni religiose sono libere ed eguali davanti alla legge.

Non sarebbe male rimuovere anche il secondo comma dell'articolo 7 che delega i rapporti tra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica a quanto contenuto nei Patti Lateranensi.
Perché se il culto è libero io posso, senza violare alcuna legge, dedicarmi a qualunque fede e non sentirmi discriminato, sminuito, emarginato.
E per la questione dell'ICI, togliamo ogni privilegio anche ai luoghi di culto, per ogni religione. È un atto di civiltà e un bene che facciamo anche alla Chiesa (di qualunque tipo essa sia). È un modo per obbligarli a recuperare la credibilità perduta nella ingiustificabile rincorsa alla stabilità o prosperità economica. Non c'è niente di religioso nel potere economico (escludo dal discorso Zio Paperone e Rockerduck, loro vivono per un nichelino). Le chiese devono ritrovare le loro origini che nulla hanno a che vedere con il denaro e con i privilegi materiali.

Ecco, Babbo Natale, tu che non esisti se non nella genialità di un pubblicitario americano degli anni '30 che trovò la sintesi nel tuo allegro costume rosso, regala un po' di buon senso a quei fossili che ancora si illudono che le cose non cambieranno mai: qui, se non cominciano a scendere tutti sulla terra, abbandonando i loro scranni rialzati e comprendendo che l'acqua sta già premendo forte dietro il muro, rischiamo di non vederlo natale 2012. E i maya non hanno niente a che fare con questa fine del mondo.

07 dicembre, 2011

Dostoevskij, Bunker e poi l'oblio.

"Ivan Karamazov, l'aveva detto con poche parole essenziali; «Se non c'è nessun Dio, allora tutto è permesso»."
È una citazione dell'immenso Fedor Dostoevskij che Edward Bunker usa per sintetizzare parte del pensiero di Troy Cameron, protagonista del bellissimo "Cane mangia cane".
La vicinanza dei due autori è sin troppo evidente. Dostoevskij può essere senza dubbio indicato come uno, se non il solo, capostipite del genere "noir". In "Delitto e Castigo" del 1866, credo per la prima volta in assoluto, il protagonista è il criminale e lo sviluppo, quasi del tutto psicologico, ha inizio dall'atto criminoso di cui è rivelato come colpevole. Questo rovesciamento di prospettiva rispetto al romanzo giallo determina un elemento fondante del nuovo genere.
Bunker è, per mio gusto personale, tra gli autori più efficaci e credibili degli ultimi anni, sebbene i suoi siano romanzi assimilabili al noir fino a un certo punto. Sono più viaggi psicologici e sociali, quasi romanzi di formazione, e in questo il suo maestro è senza dubbio il russo di cui sopra.
Comunque, su questi temi si è scritto e si potrebbe scrivere fino al varo di un decreto che tagli le spese agli armamenti in Italia (ordini per 131 aerei f35/jsf il cui costo base è 18 miliardi) e quindi passo oltre.
Questo post è riferito alle implicazioni sterminate che la frase di Ivan Karamazov contiene.
Sono quello che si definisce un agnostico. In poche parole non credo all'esistenza di un dio né alla sua non esistenza.
Di certo rifiuto la necessità e il valore di qualsiasi organizzazione, dottrina o forma di mediazione tra le creature viventi e una forma "divina". Dico creature viventi e non senzienti, perché non escludo che forme di vita che ci arroghiamo il diritto di considerare inferiori, siano in costante e diretto rapporto con l'entità che ci sforziamo, spesso ipocritamente, di evocare, adorare e usare come scudo. Chi ci dice che un cane, un gatto o un lombrico non parli con Dio più del cardinal Bertone? Di sicuro è più in sintonia con la natura (che dovrebbe essere diretta emanazione della volontà celeste).
Comunque il punto è un altro: da ateo agnostico non posso che sottoscrivere la sintesi di Karamazov e limitare qualsiasi regola alla sfera della morale e della cultura che ci siamo costruiti. Per questo motivo rivendico anche il diritto di confutarla sotto ogni aspetto e di ridefinire un insieme di regole private il cui unico scopo sia il rispetto delle mie convinzioni e della mia morale. Devo essere in pace con me stesso, non mi interessa essere per forza in armonia con la società che non mi sono scelto.
Infine, questo è il punto dolente che mi fa arrovellare, è un'altra ovvia implicazione della frase di Dostoevskij: se non c'è nessun Dio, non c'è neanche nessun significato, nessuno scopo. Tutto si limita all'equilibrio con il proprio io. Qualsiasi gesto della vita quotidiana si svuota di significato prospettico. Il domani è un concetto delirante, illusorio. La costruzione e il progetto, l'ansia per il futuro, per le conseguenze che le attuali scelte produrranno valgono il conforto dell'attimo e nulla più.
Ha senso il presente, nei suoi riflessi emotivi, nell'onesta proposizione della propria identità, nell'appagamento del desiderio secondo la sensibilità di ciascuno.
Sono valutazioni che chiunque ha fatto o può fare. E non mi intristiscono neanche un po', mi spaventa solo la maggiore solidità che certe considerazioni acquisiscono giorno dopo giorno.
Quello che è deprimente, nella mia visione delle cose, è che si debba continuare a lottare anche sul piano materiale ogni giorno, nonostante si abbia la convinzione che sia la costruzione del nulla.
Il punto è che, oblio o non oblio, amo ancora la vita in modo profondo. Sono tenacemente avvinghiato ai miei affetti, alle mie passioni e voglio, prima di raggiungere un oblio rasserenante, goderle a lungo e con il minor numero di compromessi possibili.
Quello che veramente mi disgusta è la società iniqua e distorta che ci siamo costruiti intorno, la vigliaccheria profonda che mi ha trasmesso e che mi impedisce di infrangere i legami con una dimensione che, comunque la guardi, continuo a ritenere insensata e di valore nullo.
L'oblio, se calasse dall'alto senza preavviso e annichilisse tutta la nostra insana consapevolezza elevandoci agli animali che troppo spesso bistrattiamo, sarebbe il dono più grande che qualunque entità superiore potrebbe donarci. Ma forse è essa stessa troppo sadica per privarci dell'intelligenza e della supponenza che ne deriva.

26 novembre, 2011

Gioiosa tristezza

Di pagnotte ne ho mangiate parecchie, non dovrei aver bisogno di questo genere di conferme. Eppure, quando gli eventi si combinano in una particolare sequenza è inevitabile abbandonarsi a certe riflessioni.
Basta così poco per essere felici, perché spesso la gioia, non l'appagamento o la soddisfazione, ma proprio quel getto dirompente che ci irrora all'improvviso, lucidando i nostri occhi e sollevando le guance a formare un sorriso, è figlio della fine del suo opposto. È solo l'assenza repentina del dolore.
È brillante come una brace smossa, e come la brace smossa in fretta si spegne, prima in un arancio tenue e poi in un grigio riposante.
È lì che emerge, per i più fortunati, la tranquillità dell'appagamento.
Penso sia proprio la fugacità di queste sensazioni a renderle così importanti.
Siamo delle bestie facili all'adattamento, all'assuefazione. Il nostro cervello percepisce, reagisce, registra, archivia. È un percorso costante e imprescindibile e vale per ogni cosa. Qualsiasi cosa, pensateci.
Qualsiasi esperienza si viva attraversa questi stadi, siano sentimenti o esperienze sociali, qualsiasi cosa viene processata.
Se così non avvenisse, una gioia persistente sarebbe impercettibile. Abbiamo bisogno di soffrire per essere anche felici.
Non dico niente di nuovo, niente che non sia già stato detto e spiegato in modo più efficace e dotto.
Ma ho bisogno di esprimerlo perché mi trovo nel mezzo del guado, abbacinato da un'improvvisa sensazione di felicità che sfugge mentre ancora la sto assaporando. E mi preparo al peggio, perché è meglio così: meglio essere pronti, sapere di che morte morire, non attendersi troppo.
Non lo dico crogiolandomi nel pessimismo cosmico, piuttosto restando avvinghiato a un realismo concreto e riappropriandomi di quel fatalismo che negli ultimi giorni ha tentennato.
Mi godo il momento, la giornata, il presente. Non aspettandomi troppo dal domani, posso concentrarmi su quello che ho e non su quello che potrei o vorrei avere.
Mi cullo un po' di tristezza, perché è gravida di una futura felicità.

Una carezza a Iaco che con tutti i suoi acciacchi, alza ancora il suo sguardo e ti cerca per uno scambio proficuo di affetto.

21 novembre, 2011

Il pensiero sospeso

Sono giorni difficili. Di quelli in cui non riesci a concentrarti su nulla. Ho il pensiero che mi galleggia attorno, sospeso, ronzante come un insetto fastidioso.
Provo una sensazione di angosciante impotenza. Vorrei fare qualcosa e so che non posso fare nulla. Appeso a notizie su cui non ho controllo e che mi inducono speranze contrastanti. Il senso di una responsabilità terribile, condivisa con altre due persone e per questo più leggera, ma più complessa.
Obbligati all'attesa.
Per un fatalista come me non dovrebbe essere una situazione così inaccettabile, tuttavia quando non è il tuo destino al centro della questione, certe convinzioni tremano. Inevitabile allora proiettare il ragionamento in altre direzioni, replicarlo, deformarlo, piegarlo nel modo che soddisfi l'esito del tuo ragionamento. E sapere che l'esito precede il ragionamento di cui è figlio, che spesso costruiamo solo il sostegno per provare ciò di cui siamo rigidamente convinti, non risolve alcuna questione.
Si tratta di scelte e responsabilità.
Non c'è mai una risposta definitiva, indiscutibile, pacificatrice.
Potrei elencare una sfilza di luoghi comuni che descrivono la situazione. Ma non aggiungerebbero nulla.
Il punto è che quando si avanza nella nebbia non si sa mai con certezza con cosa bisogna scontrarsi.
Da ragazzino la cecità mi suscitava una curiosità quasi morbosa. Provavo spesso a muovermi nel buio più completo. Lo facevo per pochi minuti, insufficienti per provare una reale angoscia, ma abbastanza per rendersi conto di quanto sia difficile nonostante ci si muova in un terreno che si conosce, che la vista ha già registrato. Il motivo, suppongo, è dettato dal fatto che il nostro cervello registra contestualizzando e quindi anche la "visione" mentale di un ambiente familiare è mediata dall'utilizzo che di quella registrazione dobbiamo farne. Così la sedia è troppo vicina, la scrivania troppo lontana, i passi non corrispondono. Il battito accelera fino a voler recuperare il controllo.
Il mio fatalismo crolla secondo lo stesso percorso logico: per quanto temprato negli anni e negli eventi sfortunati già vissuti, è vittima di una registrazione errata e non sa fronteggiare con la dovuta freddezza l'orlo di un precipizio reale. Tutto il raziocinio sbiadisce, resta un senso di smarrimento che va inquadrato, ridefinito o assorbito sul piano emotivo.
È solo un pensiero sospeso, galleggiante tra la ragione e l'imprevedibilità e ineluttabilità della vita.
In un bellissimo brano dei New Model Army, all'interno dello splendido "High", dal titolo "No mirror, no shadows" c'è un semplice verso che recita: "Nothing is ever meant to last".
Bisognerebbe sempre tenerlo a mente, anche quando il pensiero, sospeso, galleggia attorno a noi come un'ombra profonda.

17 novembre, 2011

Recensione di "IX: non desiderare la pecora d'altri"

Nel ricordarvi che l'ebook in oggetto è sempre disponibile al download gratuito, mi fa piacere segnalare questa più che generosa recensione apparsa sul blog del buon Gianluca Santini:

16 novembre, 2011

Dove finiscono le dita

Oggi, mentre facevo editing spinto di un documento tecnico scritto coi piedi – non mi sento di escludere che fossero anche storti, con le unghie lerce e gnocchi neri tra le dita –, mi sono messo in cuffia Fabrizio De André. Era molto tempo che non lo ascoltavo, ormai la musica che mi accompagna è tutta straniera, ma a lui regolarmente torno, perché mi rassicura, e non tradisce mai.
Così, tra l'aggiustamento di un formato paragrafo e la riformulazione completa di un periodo contorto, ho aperto wikipedia per dare un'occhiata alla pagina a lui dedicata.
In cima a tutto è riportato un verso meraviglioso di "Amico fragile", che recita:

« ...pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra»

È una frase incredibile, più la leggo più capisco quanto sia legata alla mia vita.
Potrei sostituire chitarra con basso, o con penna, con tastiera, con pennello o matita. La parte che proteggo di me, quella che amo, che mi ha permesso di sedermi su questa roccia piatta che mi infonde equilibrio è tutta qua. Un cordone ombelicale che collega me stesso allo strumento che volta per volta mi completa. È un tubo carnoso invisibile in cui fluisce un sangue dorato, l'essenza, l'anima.
Ognuno dovrebbe averne uno, ognuno dovrebbe desiderare di completarsi fuori da sé. Quando parlo di completamento intendo espressione. Non è forse questo uno degli aspetti che ci distingue dagli animali? L'esigenza di dare forma a un pensiero, a un desiderio, a un bisogno che vada oltre l'istinto?
Siamo bestie, questo è certo, ma esiste sempre un piccolo vuoto da colmare. Mi ritengo fortunato perché, sin da piccolo, ho sempre nutrito, usando forme differenti, questa bocca vorace. La passione è solo questo, una fame da saziare. La fame più essenziale. Prescinde da tutto.
A volte, come ora, penso che si possa vivere senza amore e affetto se si ha la possibilità di curare le proprie passioni. E lo dico da uomo privilegiato che gode di amore e affetti immeritati.
Se dovessi immaginare un uomo disperato sarebbe così: senza passione, senza desideri, senza voglia di esprimere se stesso.
Dall'altra parte delle dita non deve esserci per forza uno strumento, ma anche un libro, una pianta, un cucciolo di cane.
Fate questo gioco: nella frase di Fabrizio De André, sostituite "una chitarra" con quello che amate di più.
Preoccupatevi se non avete nulla da scriverci. Allora sì, sono cazzi.

06 novembre, 2011

Il girotondo delle identità

Prendi un uomo con le sue certezze, la sua solidità, i suoi riferimenti, i parametri ricavati con fatica durante una vita d'errori e tentativi. Collegalo a Internet, gettalo in un forum, in un social network. Lascia che apra uno, due, dieci blog. Aggiungi qualche video, un po' di spam e un pizzico di prurito adolescenziale. Lascialo macerare un paio d'anni e poi passa a raccogliere ciò che resta.
E cosa resta?
Di tutto. Spesso, ma non è la regola, gli effetti peggiori colpiscono adolescenti ancora privi di guscio e adulti privi di equilibrio o di una vita reale.
Ma può anche capitare di essere persone del tutto equilibrate che senza rendersene conto restano sopraffatti, sommersi dalla moltiplicazione identitaria che la rete sa produrre. È come l'effetto provocato a un raggio di luce che attraversa un prisma. Si costituisce un numero sterminato di connessioni, relazioni e impegni che a lungo termine possono condurre a un corto circuito.
È importante riconoscere questo momento, per emergere dall'acqua, prendere fiato e salire sull'argine a osservare con maggiore distacco e più efficace prospettiva il vorticoso e infinito fiume di chiacchiere e deliri che ingorga il web.
Alcuni non ce la fanno o più tristemente si nutrono di questo. Sono una specie moderna di vampiri, lontani dalla luce del sole oltre la finestra, destinati a vivere degli effetti (positivi o negativi che siano) che una qualsiasi delle loro identità produce in rete. Il problema che spesso tendono a perdere di vista è che internet resta una proiezione piena di difetti e imprecisioni. Da questo equivoco spesso sottovalutato divampano battaglie ridicole, zuffe a colpi di post, intere reti di spionaggio da community, con troll e sub-troll, blog e contro-blog fino al paradosso di confutare il falso come fosse vero, quando qui – tra questi bit – il vero ha un significato sbiadito.
La crescita di un essere umano, inserito in qualsiasi contesto sociale, da uno svedese di Stoccolma a un indigeno di Papua, è segnata dal passaggio fondamentale che coincide con la capacità cosciente di distinguere il bene dal male. Ogni società, beninteso, stabilisce dove porre il confine tra questi due opposti effimeri, ma il passaggio va compiuto.
In internet è bene comprendere che nessuno impone questa consapevolezza e che esistono infinite linee di confine, tante quante sono le identità di chi ci naviga: e parliamo di un numero così alto che è inutile considerarlo significativo. Per questa ragione sarebbe saggio astrarsi del tutto e riuscire a prendere (e a dare) sul web con un distacco assoluto, senza accanimenti, rivendicazioni, rancori.
La rete, in particolare quella da community e social network, è solo un enorme gioco di ruolo.
Ed è anche per questo motivo, ma non solo, che da anni ho adottato un filtro per relazionarmi con essa. Un nick, azzeccato o meno che sia, è tutto ciò che occorre. Usare il mio nome vero in un mondo intrinsecamente falso sarebbe, per me, incoerente. Lo si può fare, ma si mette in gioco più di quanto richiesto. Ci si fa carico di una responsabilità che raramente verrà corrisposta. Si introduce l'equivoco, almeno con se stessi, che daremo ciò che siamo al web. Quando sappiamo che, prima o poi, forti della distanza che il web stesso ci garantisce, porremo filtri, schermi e rielaborazioni di noi stessi per offrire soltanto ciò che vogliamo: il nostro meglio o il nostro peggio. Una maschera, come nella vita reale, che gli altri però potranno valutare con mezzi molto meno incisivi che in un incontro intorno a un tavolo.
Vogliamo comunicare, veramente? vogliamo capire se ci sono delle affinità, se abbiamo interessi comuni, se possiamo costruire qualcosa di concreto? Lo faremo fuori da qui.
Nel frattempo, piedi per terra, nick o nome reale, immagine rubata o foto autenticata, teniamo sempre presente che internet è un gioco di ruolo. E parlando in generale, fanno parte del gioco anche tutte le relazioni che si instaurano (senza distinzione tra positive e negative), almeno finché non trovano consacrazione a rete staccata.

31 ottobre, 2011

Senso di colpa

Torno a occuparmi del blog dopo un incredibile numero di mesi, e lo faccio soltanto per verificare se ho pubblicato un numero tale di video da dovermi preoccupare dei gendarmi sotto casa.
Il senso di colpa dell'onesto. Come quando ti ferma una pattuglia della stradale e ti prende il panico anche se paghi assicurazione e bollo con ampio anticipo, se cambi le gomme prima che il battistrada sia fuori norma e fai bollini blu, revisioni, controllo dei fumi e pulizia dei tappetini con una scrupolosità pari a quella del mitico Furio di Carlo Verdone.
Passi qui dopo mesi e scopri che da un senso di colpa salti a un altro. Scopri che ci sono due persone, che non sono tuoi parenti né creditori, che ti seguono, avrebbero interesse a leggere quello che scrivi. Peccato che su questo blog non ci scrivi nulla. E non perché non desideri farlo. L'ho aperto apposta. Più semplicemente perché c'è sempre qualcosa che ti distoglie, ti occupa il tempo e la mente e lascia indietro un canale che andrebbe curato, almeno un po'.
Allora, ringrazio di cuore chi ha deciso di iscriversi, magari d'istinto, magari senza un vero motivo, magari per sbaglio e scrivo due righe su quello che mi sta succedendo. Oggi che sono in riposo aziendale forzato.

Sto scrivendo. Questa è la cosa più importante, almeno quella che dovrebbe esserlo in questo spazio internet che prende come nome lo pseudonimo che utilizzo. Ho iniziato da un paio di settimane la stesura del nuovo romanzo. Sì, quello che ho già smontato almeno tre volte (senza contare i tentativi abortiti che ho dimenticato). Stavolta il cavo d'acciaio che collega le due pareti che danno sul precipizio è stato fissato, mi sono appeso e sto, metro dopo metro, avanzando. Può sembrare un'immagine terribile, esagerata, ma la ritengo calzante. Ho bisogno che il cavo sia fissato dall'altra parte quando mi accingo a scrivere qualcosa di lungo e impegnativo. Ed è l'unica cosa di cui ho veramente bisogno. Il resto è un baratro sotto i piedi. Un percorso avventuroso. Posso contare solo sulla forza delle mie mani e sulla dose di tenacia di cui sono in possesso. Sono sospeso con le gambe penzolanti, esposto ai venti e alle intemperie, alle sorprese che la valle sottostante mi riserverà. L'unica cosa che conosco è il punto di fissaggio sull'altra parete. Spero di arrivarci integro, conto di arrivarci presto. Ma sarà divertente oscillare nell'avanzamento.

Sto andando al cinema. Di recente ho visto: Carnage di Polanski, This must be the place di Sorrentino e La pelle che abito di Almodovar. Sensazioni altalenanti. Almodovar decisamente toppato. Buon soggetto, pessima regia. Chissà in mano a Cronenberg o a Fincher...

Sto leggendo: Cane mangia cane di Bunker e Tutto quel nero di Cristiana Astori.
Bellissimo finora il primo, intrigante e ben scritto il secondo.

Sto ascoltando musica. In questo momento jazz, ma spesso è così quando sono davanti al computer a scrivere.

Ho comprato una nuova cuccia per il cane. La meritava e apprezzerà il posizionamento sotto la finestra della cucina. Visto che non si schioda mai di lì e che a breve farà molto freddo, potersi riparare senza allontanarsi dovrebbe rendergli l'inverno meno difficile. Alla sua veneranda età (calcolate 14x7), certe comodità fanno la differenza.

Ora passo a Scrivener e butto giù qualche riga, magari qualche pagina.

Un caro saluto ai due lettori. Sì, proprio a voi, avete una pazienza...


PS: curiosa coincidenza che la data di questo post sia un omaggio involontario anche al blog di uno dei due lettori!


12 gennaio, 2011

Le nuove catene di Sant'Antonio

Capita di avere tra gli amici, rompicoglioni come Gelo. Intendiamoci, non è colpa sua, ognuno nella vita ha gli amici che si merita e che si sceglie, non è come con i parenti che arrivano con tutto il pacchetto.
In ogni caso certi amici scassano. Mi trovo una mail in cui Gelo mi annuncia di avermi "memeizzato" (ditemi se vi sembra un termine che un direttore di collana serio possa utilizzare) nel suo blog.
E sono pure in buona compagnia, ma comunque ho provato lo stesso prurito fastidioso di quando mi "taggano" sul faccialibro, specie quando il tag è in post o fotografie in cui io non c'entro una mazza.
Verrà mai in mente agli euforici entusiasti digital-navigatori d'occasione che uno che non usa il suo vero nome e non pubblica sue foto su internet, non ama essere intrugliato troppo? Eh no, t'ho taggato in "la nuova ricetta del ragù alla bolognese della Clerici"...
Comunque Gelo mi è simpatico, lo stimo e sebbene dica che non aggiorno mai il blog anche quando non è vero, due righe gliele dedico volentieri.
Nel post precedente avevo omesso un simpatico risvolto della mia vacanza alpina: il cenone di Capodanno.
Faccio presente che in quarant'anni di onorata attività non avevo mai partecipato ad alcun capodanno celebrato in luogo pubblico, a nessuna festa da ballo, a niente che fosse vagamente mondano.
Dall'adolescenza in avanti ho trascorso i miei brindisi sempre tra amici, in occasioni più o meno alcoliche e più o meno stravaganti, ma sempre tra facce conosciute.
Quest'anno, stando in albergo, non potevo esimermi dall'esperienza.

L'albergo, un falsissimo quattro stelle che neanche Filini dell'ufficio sinistri avrebbe potuto prenotare (chi volesse evitarlo può contattarmi in privato che gli do i dettagli), ci aveva propinato buffet pericolosi fino al 31 a pranzo. Roba radioattiva e triste come la mensa del Cardarelli. Così inquietanti da farmi attivare la sicura modalità "mensa": riso in bianco, formaggi confezionati, frutta da sbucciare, etc. etc.
Ma la sera del 31 tutto è cambiato. La sera del 31, senza avvisare nessuno né mettere indicazioni nella hall (forse perché ci si giocava allegramente a ping pong sui tavoli), il ristorante ritardava l'apertura di un'ora. Questo scatenava un aumento spasmodico della fame degli ospiti, molti di ritorno da lunghe ed estenuanti giornate sulle piste) e favoriva un assembramento pericoloso all'ingresso della sala stessa.
Ma era la sera del cenone, ai tavoli avevano addirittura cambiato le tovaglie bisunte e collocato una bottiglia di vino rosso dalla provenienza vinicola sospetta.
E poi: buffet di antipasti sontuoso, ma intoccabile. Gli ospiti che entrando, dopo un'ora di attesa, avevano azzardato a riempire i piatti, erano stati più o meno cordialmente invitati ad attendere, perché dovevano essere scattate le foto...
Quindi, dopo questo ulteriore rinvio, si poteva cominciare ad azzannare il cibo in bella mostra. Peccato che si era creata una tripla fila e che, prima di una ventina di minuti, fosse difficoltoso anche arrivare in zona.
Ma le sorprese vere dovevano ancora venire: come nel più pacchiano dei matrimoni anni '90, ogni portata veniva introdotta da luci soffuse (l'effetto era facilitato dai numerosi faretti fulminati), un accenno di musica di sottofondo e il corteo di camerieri che sfilavano dalle cucine e andavano, prima a depositare le fiamminghe sul tavolo centrale, poi a servire le stesse tavolo per tavolo.
Lo spettacolo era già patetico di suo, soprattutto se rapportato al livello infimo dei giorni precedenti, ma diventava senza dubbio ridicolo se si coglievano le conversazioni scambiate tra il capo-cameriere e i suoi collaboratori. Con accento molto marcato si potevano ascoltare veri e propri cazziatoni, carichi di pesanti offese e di rimbrotti ruvidi. Noi, che avevamo a favore anche l'ingresso/uscita della cucina, abbiamo anche notato il piluccamento ripetuto dei camerieri direttamente dalle fiamminghe o dai piatti nell'attesa che gli venisse ordinata l'uscita in sala. Raccapricciante.
Infilati tra i cibi, in perfetto stile San Silvestro, c'erano anche le girandole accese, e un cameriere ha rischiato l'autocombustione quando le scintille hanno scatenato un piccolo incendio su un lato del grosso vassoio. L'abbiamo avvisato, nonostante fossimo tentati di lanciargli contro un bicchiere d'acqua.
Senza scomporsi, lo sventurato professionista, è riuscito a domare le fiamme. E con calma ascetica ha sistemato le cibarie (per un quarto carbonizzate) sul tavolo assieme alle fiamminghe integre. D'altronde c'è chi ama la parte più bruciacchiata.
Quando abbiamo individuato il direttore di sala, ogni tassello è andato al suo posto. Abbiamo realmente e definitivamente compreso tutto l'insieme (posso fornire dettagli). Ora conosciamo la strategia imprenditoriale che muove quell'albergo e non possiamo biasimarli per le loro scelte. Vi lascio con la trascrizione di una sola delle portate servite durante questa indimenticabile serata. E' un primo, il primo primo. Ho trafugato il menu dell'occasione come prova inconfutabile dell'esperienza vissuta. Posso esibirlo a chi dovesse richiederlo.
Di seguito la trascrizione letterale.

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Primi

Il Risotto tostato al Porro e Grappa alle Mele, stufato con Bisque allo Zafferano, mantecato in salsa di Norvegese, Salmone e Zeste di Agrumi alla Clorofilla di Prezzemolo

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Per un po' abbiamo sperato ci fosse anche l'orchestrina di Fantozzi (quella che manda avanti l'orologio per correre all'altro cenone), ma ormai è più di moda la discoteca, e infatti alle 23:00 è iniziato l'inconfondibile: UNZ UNZ UNZ

10 gennaio, 2011

Sonno di una notte per niente estate

Si può senz'altro dire che le festività sono alle spalle (il che non è sempre una buona cosa).
Ne sono successe di cose in queste ultime due settimane. Meglio evitare le cronache mondiali e nazionali, o lo scoramento per come è iniziato storto anche questo 2011 non ci permetterà di arrivare integri al tramonto.
Il punto è che una notte, un giro di calendario, non cambia mai nulla.
Niente si modifica tra i 17 e i 18 anni, niente tra i 39 e i 40. Le cose che cambiano sono altre, sono i fatti, le esperienze, le curve della vita. Non importa il numero che riporta la pietra miliare sul ciglio.
Così andiamo avanti, tortuosamente se vogliamo evitare ostacoli e dirupi. Sapere fare lo slalom nella vita può risultare determinante.
Ho iniziato a sciare il 30 dicembre 2010. A quarant'anni suonati. Alla mia prima vacanza sulla neve.
Non può essere un caso che sempre nel 2010 abbia anche imparato a nuotare. Fa parte della mia evoluzione, di una di quelle curve. Svolte insignificanti per chiunque salvo che per me. Rimettersi in gioco e superare qualche paura appagando allo stesso tempo dei vecchi desideri è tonificante.
Ho scoperto che sciare mi piace, adoro seguire le gare di sci alpino da sempre, ora so che posso divertirmi anch'io venendo giù da una montagna. E' una cosa che rifarò, con maggiore determinazione di questa prima volta.
Tonificante era anche l'aria di questa mattina a Roma. Avendo prove con il gruppo questa sera, sono dovuto venire al lavoro in macchina. Il terrore di restare bloccato nel traffico mi ha spinto via da casa alle 6:30. Sono arrivato sotto l'ufficio alle 7.30 (tempo quasi da record). A quel punto non potevo far altro che dirigermi al bar per una dose di caffeina e l'aria era meravigliosa. L'aria di Roma! Lo so che è incredibile, ma ancora non puzzava di smog. La si poteva inalare a pieni polmoni, fresca, dolce e con quella sottotraccia umida della notte che evocava la primavera. Alzando gli occhi ho ammirato il cielo in cui grosse nuvole alte galleggiavano pigre e – solo per un attimo – mi è sembrato quasi piacevole, a posto, opportuno, essere lì per lavorare.
Poi il momento è passato, ho scrutato la strada prima di attraversare e mi sono infilato nella galleria squallida che conduce all'ingresso dell'altrettanto squallido palazzo dove sta il mio ufficio.
Mi attendono mesi confusi al lavoro, di cambiamenti che non necessariamente saranno buoni, ma stando a come intorno sembra che il brutto non cambi mai, che il peggio non abbia mai fine, allora accogliamo i cambiamenti con un pizzico di speranza.

Ho visto "Mille anni di buone preghiere", un buon film cinese.
E ho visto "Departures" – questo qualche tempo fa – ottimo film giapponese. Da far vedere ai bambini, tratta di morte, di come la si possa affrontare con rispetto, di come tutto possa essere affrontato con rispetto e di come questo cambi le cose, le prospettive e la stima che abbiamo per noi stessi.

E' un post senza senso questo, ma con tanto sonno dentro. Aspettare il terzo caffé avrebbe riordinato le idee, ma avrebbe tolto gran parte del piacere di scriverlo.