23 dicembre, 2015
Latorre e la sofferenza italica
22 dicembre, 2015
Il coglione di casa Hitler
Tarcisio Briatore e l'otto per mille
Joe Strummer (al secolo John Graham Mellor) – 13 anni dopo
Oggi ricorre il tredicesimo anniversario della scomparsa di Joe Strummer. Per i meno attenti, leader dello storico gruppo rock (etichettarli punk, per me, sarebbe superficiale) "The Clash".
Negli anni, ho scritto più volte di lui. D'altro parte, avendolo come immagine personale, di copertina e ispiratore del mio pseudonimo, sarebbe stato ingeneroso non farlo.
Nel ricordarlo oggi, mi interessa sottolineare quale sia l'aspetto che, almeno in principio – soltanto a livello inconscio –, lo ha reso cruciale per il mio rapporto con la musica.
Un aspetto che ho poi, sempre con maggiore consapevolezza, tenuto presente, sia nella "selezione" della musica da ascoltare che, ancor di più, nella musica che ho suonato e suono tutt'ora.
Non sto rivelando il settimo segreto di Fatima. La chiave di tutto è soltanto la passione. La capacità di mettere l'anima nelle cose che si fanno.
La musica è un linguaggio di potenza inarrivabile che garantisce a tutti la possibilità di entrare in contatto con se stessi, con la propria emotività. Un mezzo così forte va sfruttato al massimo, prima con il cuore e poi con le capacità tecniche che si possiedono o si costruiscono.
Non ricordo quale sia stato il primo pezzo dei Clash che ho sentito. Forse Janie Jones, avevo all'incirca sette anni e quindi ho qualche scusante. Ma credo di aver percepito, sin da allora, a un livello profondo, che quel cantare strillato e sgraziato contenesse molta più materia della gran parte della musica che si ascoltava di norma.
C'era poca educazione, pochissima tecnica, zero virtuosismi e una composizione esigua, ma il disco d'esordio era come la canna di un mortaio: proiettava l'energia di quei versi rapidi a una distanza enorme e a una profondità altrettanto grande.
Da allora ho cercato sempre di individuare chi possedesse questa capacità, non di emozionare, ma di emozionarsi facendo musica. Se in un musicista manca questa componente, si è di fronte a un impiegato della peggiore specie. Avvilire la musica a un esercizio tecnico è un delitto.
La tecnica è importantissima, ne so qualcosa io che ne sono privo, ma se fossi costretto a scegliere, la subordinerei sempre alla passione, all'anima, alla pancia.
Joe Strummer, con quella voce roca e dall'estensione ordinaria, a mio parere è l'incarnazione perfetta di questo concetto. Reale, tridimensionale, onesto in musica e testi (molti dei quali straordinariamente profetici e ancora attuali). Non era un angelo venuto a carezzarci il cuore, ma un operaio venuto a scuoterci il sangue.
17 dicembre, 2015
Putin e il Nobel a Blatter
16 dicembre, 2015
Il segreto di Andreotti e Gelli
09 dicembre, 2015
Silvio e i barboncini di Dudina
Un POSt in economia
Il papà di Luigino va dal fruttivendolo e compra una mela (è tempo di crisi), non avendo moneta contante con sé (nonostante il tetto sia stato innalzato a tremila euro), come indicato nella legge di Stabilità, estrae il suo bel bancomat e lo porge al fruttivendolo.
«Sono 5,50 euro» gli dice affabile il venditore porgendogli il dispositivo per l'inserimento del PIN.
«!@XXX/?^!!!§*éLç» esclama a gran voce il papà di Luigino. Poi, più pacatamente: «Ma è solo una mela. Di cosa è fatta, oro massiccio?»
«No, è agricoltura tradizionale, neanche biologica. Sa, il pagamento con il POS ha indotto un leggerissimo ritocco dei prezzi. Ci sono le commissioni a nostro carico...»
«A nostro carico, vorrà dire!»
Il fruttivendolo assume un'espressione d'indifferenza e Luigino oggi mangia una pera del giorno prima (prima della legge di stabilità).
Perché tutto questo?
Io, che non sono un economista, mi sono fatto il classico conto della serva (come diceva sempre Totò "La serva serve").
Di recente è sempre più attuale la parola "deflazione". Sta diventando un termine glam, virale come il già accantonato "spread".
La deflazione è l'opposto dell'inflazione.
La deflazione è, in macroeconomia, una diminuzione del livello generale dei prezzi (fonte wikipedia).
Il problema non risiede tanto nel fatto in sé, ma nel peccato più grave che consente di considerare tra le voci previsionali del bilancio di una nazione il tasso di inflazione e su di esso basarci, insieme a mille altri parametri, la stima del PIL.
Così, se per ipotesi si entra in deflazione, il PIL stimato rischia di non essere raggiunto, con inevitabili ripercussioni e conseguente esigenza di correzione (tagli, tasse, etc.).
In sostanza, se i prezzi diminuiscono, bisogna fargli rialzare. Pazzesco eh? Già.
Di metodi ce ne sono infiniti, ma quello escogitato dai nostri geni del male è al tempo stesso efficace e, perché no, anche favorevole alle banche.
L'imposizione dell'utilizzo del POS per qualsiasi importo di spesa, produrrà più commissioni.
Sì, le associazioni dei commercianti hanno subito contestato, ma si fa presto a prevedere dove finiranno le commissioni sul prezzo di un caffè... Voi che dite?
Con buone probabilità saranno inserite, assieme alla carota (e non al posto), nella tasca anatomica anche di quegli ortolani che continueranno a pagare il caffè con i contanti.
Ci sarà un rimbalzo dei prezzi che contrasteranno il tanto fastidioso fenomeno della deflazione e la banche (così tartassate dai governi marxisti-leninisti degli ultimi decenni) avranno un piccolo favore, anche per quei tremila euro in contanti.
Ah per i tremila euro ho già individuato due applicazioni perfette (una delle quali decisamente illegale) nella vita quotidiana. Non appena trovo il modo di esporlo in modo potabile, vi passo la dritta.
Il vestito verde della Santanché
04 dicembre, 2015
Il senso di un capo solo sulla carta
Una volta, alle origini del blog "Strumm und Drunk", dedicavo una parte dei post alla categoria "Colletti Gialli", una cronaca amara e bisunta delle vicende e dei personaggi che animavano questa azienda. È possibile che questo filone prenda di nuovo vita, di spunti ce ne sono in quantità.
Come il noto ragionier Ugo, lavoro in un'azienda in stile ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica.
Guai a dirlo a voce alta, qualcuno potrebbe offendersi di un simile accostamento, ma per lo spicchio di realtà lavorativa in cui sono calato, le differenze sono quasi impalpabili. Quarant'anni dopo la prima versione cinematografica di quel capolavoro di satira e umorismo che fu il libro di Paolo Villaggio, sembra che in Italia non sia cambiato molto.
Per carità, non mi lamento: sono un privilegiato. Nel deserto di opportunità che questo paese mette a disposizione e nonostante i ciclici interventi per rilanciare il mercato del lavoro, non ultimo il "Jobs Act" (dai contenuti molto discutibili, ma dal nome spendibile per Renzi in eventuali interviste sul Financial Times – sulla copertina di fine anno dell'Economist non l'hanno proprio cagato), riuscire a mantenere un impiego stabile e ben pagato per oltre venti anni è un successo non riservato a tutti.
Detto questo, non avendo gli occhi cuciti, e anche in conseguenza di un'esperienza lunga, non possono sfuggirmi macroscopiche stranezze nella conduzione dell'attività.
Oggi mi soffermo su una riflessione piuttosto semplice: l'ultima riorganizzazione che ha inciso direttamente nel settore in cui opero ha portato alla sostituzione del dirigente di riferimento. Sia il precedente che l'attuale hanno come sede di lavoro Milano e spendono la maggior parte del loro tempo lì. Questo avvicendamento è avvenuto all'incirca diciotto mesi fa. Il dirigente precedente, senza eccezioni, dedicava almeno un paio di giorni al mese per scendere a Roma, aggiornarci sulle evoluzioni organizzative e aziendali, condividere con ciascuno di noi le sue idee e la visibilità sui progetti in arrivo. Oltre a questo, nonostante non fossimo sempre d'accordo sulle scelte, si sforzava di chiederci direttamente la nostra opinione, spiegazioni su questioni tecniche, superando – quando lo riteneva necessario – lo schema gerarchico che poteva assicurare una distanza dalle questioni più spicciole.
Insomma, ci conosceva o si sforzava di conoscerci, conosceva il nostro lavoro o si sforzava di conoscerlo.
Peccato che la sua visione troppo pragmatica e poco politica del ruolo ha determinato un brutale allontanamento dall'azienda dopo quindici anni di onorato servizio.
Il nuovo dirigente ha operato così: un punto di separazione in più all'interno della stessa struttura a presiedere il gruppo di Roma. Per carità, siamo tante persone.
Una serie di colloqui iniziali piuttosto sbrigativi e raffazzonati nelle visite che istituzionalmente dovevano essere svolte all'assunzione dell'incarico. Per carità, sono così tanti gli impegni.
Un brindisi natalizio il dieci o l'undici dicembre del 2014. Per carità, cazzo, è Natale!
Nessun contatto diretto con gli amati inferiori a meno di epidemia di peste bubbonica o invasione delle cavallette (il che ha ridotto le occasioni circa a... zero). Hai visto mai cominciasse a ricordare qualche cognome.
Questo non le ha impedito di mediare sistematicamente al ribasso tutte le valutazioni annuali fatte dal nostro responsabile di Roma, anche per quelle persone di cui non conosce con esattezza il cognome (misteri della fede e del controllo a distanza). Una sensibilità straordinaria.
E in regolari visite a Roma durante l'anno, ha incontrato in una modalità carbonara che neanche Mazzini avrebbe potuto escogitare, soltanto alcuni di noi per salutarli. Peccato che questi "eletti" siano nostri colleghi da una vita e non si siano tenuti la cicca: il famoso segreto di Pulcinella.
Poi, come se nulla fosse successo, ieri ci comunica con gaudio e giubilo che verrà a Roma per brindare con noi prima delle cattoliche feste natalizie il giorno quindici.
In un clima aziendale sano, quando – poco tempo fa – tutti noi hanno avuto un confronto individuale con HR, su domande riferite all'efficacia dell'organizzazione attuale e sul rapporto col nostro dirigente, una qualche mezza obiezione si sarebbe dovuta e potuta sollevare, ma in questo momento di Solidarietà e tagli all'orizzonte, sei costretto a sfoderare il tuo sorriso scolastico e a mimetizzarti come un camaleonte con lo sfondo tinteggiato dell'ufficio. Devi essere meno di un numero per aspirare a rimanere un numero.
In un clima aziendale sano, quando – poco tempo fa – tutti noi hanno avuto un confronto individuale con HR, su domande riferite all'efficacia dell'organizzazione attuale e sul rapporto col nostro dirigente, una qualche mezza obiezione si sarebbe dovuta e potuta sollevare, ma in questo momento di Solidarietà e tagli all'orizzonte, sei costretto a sfoderare il tuo sorriso scolastico e a mimetizzarti come un camaleonte con lo sfondo tinteggiato dell'ufficio. Devi essere meno di un numero per aspirare a rimanere un numero.
Tuttavia, senza alcun rammarico, ho spostato uno dei giorni di ferie da smaltire andando a occupare inavvertitamente il quindici dicembre. Perché, con tutto il rispetto, di un capo di carta ne faccio degna opera soltanto al bagno. Auguri.
03 dicembre, 2015
Una riflessione del tutto personale
È tantissimo tempo che non scrivo un post. La scrittura è diventata una ferita aperta che duole anche quando me ne prendo cura. Ma avevo bisogno di mettere in ordine questo pensiero degli ultimi giorni. Una riflessione del tutto personale cui dovevo dare sfogo.
Ho sempre avuto la convinzione che il nostro destino, il percorso che facciamo, sia uno slalom tracciato da un numero finito di paletti, momenti significativi di natura diversa.
Alcuni di questi "nodi" sono gradini della scala di consapevolezza che dovremmo progressivamente salire man mano che cresciamo.
Qualche sera fa credo di aver riconosciuto uno di questi passaggi.
Mi sono reso conto che un dolore lontanissimo, la cui eco ancora torna a disturbarmi con frequenza quasi quotidiana, offriva uno spiraglio di uscita mai considerato prima. Questo spiraglio era rappresentato dalla possibilità di ringraziare chi aveva causato quel dolore e di ritenermi fortunato perché quel dolore mi era stato procurato.
Sembra pazzesco, paradossale o masochista, e forse è un po' tutte e tre queste definizioni, ma è anche vero.
Il punto è che alcune delle illusioni di cui ci nutriamo, quando iniziano a sgretolarsi, si rivoltano contro di noi divorandoci a loro volta. E nella sorda ostinazione del non voler o saper riconoscere che i piatti della bilancia si sono invertiti, accogliamo l'inizio strisciante di un'infinita agonia mascherandola di giustificazioni che appaiono solide soltanto ai nostri occhi.
Il punto è che con l'età credo di aver capito di preferire un boia a un aguzzino. Ma è molto più difficile incontrarne. Nel mondo che tendiamo a costruirci scegliamo spesso la mezza verità, la mediazione, la correttezza apparente alla verità brutale. Perfino il boia a volte non ha la forza di dirti perché ti taglia la testa, ma te la taglia e passa oltre.
Io raramente riesco a essere boia e questo, per la maggior parte del tempo, non mi aiuta a stare in pace con me stesso.
Quello di cui non ho parlato è il perdono, perché nella mia idea di perdono è necessaria la comprensione. Non posso perdonare qualcosa che non sono in grado di capire, non condividere, ma capire.
Nonostante tutto, il male cui faccio riferimento non l'ho mai capito fino in fondo e quindi mi è impossibile archiviarlo, ma so – quando non mi racconto cazzate – che è stato meglio così.
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